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02-02-2022

VARIAZIONE DELLE PROVVIGIONI E RECESSO DELL’AGENTE

In questo articolo esamineremo il potere del preponente di ridurre unilateralmente le provvigioni (o la zona, prodotti o clienti) ed in quali casi l’agente possa reagire all’esercizio di tale potere provocando il recesso dal contratto per causa imputabile al preponente.

La misura delle provvigioni (come la zona) costituisce uno degli oggetti tipici del contratto di agenzia e, pertanto, la sua modifica normalmente richiederebbe il consenso di entrambe le parti.

Proprio per questa ragione, a mio avviso, meritano una maggiore indagine i fondamenti delle clausole, frequenti nella pratica dei rapporti di agenzia, che autorizzano le case mandanti alla modifica unilaterale degli elementi del contratto.

Tale potere di modifica unilaterale è stato riconosciuto al preponente dagli Accordi Economici e Collettivi del settore Commercio e Industria, quantomeno a decorrere dall’anno 2002.

Il potere contrattuale di modifica unilaterale è stato poi anche dichiarato legittimo dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ne ha riconosciuto il fondamento nell’esigenza di adattare il rapporto alle mutate situazioni di mercato.

Primo punto da chiarire: se la riduzione della misura provvigionale (o della zona) viene presentata dalla mandante come una variazione consensuale al contratto, l’agente che sottoscriva il relativo patto sarà poi ad esso definitivamente vincolato.

Nel caso in cui l’agente rifiuti di accettare la riduzione, la casa mandante generalmente provvederà a comunicare la variazione per mezzo di un atto unilaterale, vale a dire di un atto efficace anche contro la volontà dell’agente.

In questa situazione, la prima cosa da fare è accertare che il contratto attribuisca il relativo potere alla mandante. Si dovrà quindi verificare la presenza del patto che attribuisca direttamente alla mandante il potere di fare la variazione ovvero, più frequentemente, che glielo attribuisca per mezzo del richiamo alle disposizioni degli degli Accordi Economici e Collettivi.

Se dall’esame del contratto risulterà che la mandante non abbia il potere contrattuale di fare la variazione, la disposta riduzione della provvigione sarà certamente da considerarsi illecita e priva di effetto, con la conseguenza che l’agente potrà reagire con gli opportuni rimedi:

  1. azione di adempimento, per il pagamento delle provvigioni nella misura originariamente pattuita;
  2. recesso per giusta causa, qualora la riduzione -ed il conseguente inadempimento- siano di portata tale da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto.

Peraltro, anche quando la riduzione della provvigione sia fatta sulla base di un potere contrattuale, occorre verificare il suo corretto esercizio da parte della mandante, che può farne uso solo entro limiti precisi.

Il primo e più frequente caso riguarda la riduzione delle provvigioni disposta sulla base delle regole degli Accordi Economici e Collettivo del settore Commercio o Industria, richiamati nel contratto individuale di agenzia. Per una approfondimento su questo punto, puoi leggere qui l’articolo specifico.

In questa sede, ciò che interessa è il potere di reazione attributo dalla contrattazione collettiva all’agente. In particolare, nel caso in cui la variazione provvigionale (o di zona) disposta unilateralmente dalla casa mandante superi il 20%, l’agente ha 30 giorni di tempo per comunicare di non accettare la variazione. Quando si verifichi questa circostanza, la lettera di variazione si trasforma in una comunicazione di recesso con preavviso ad iniziativa della mandante.

Questa norma della contrattazione collettiva è significativa perché pare riconoscere sempre legittimo il potere di variazione della mandante. Ciò perché, anche se l’agente rifiuti di aderire alla modifica, così provocando il recesso, questo è dato comunque con preavviso. Il che, fondamentalmente, significa che ci si trova di fronte ad un recesso ordinario, un recesso cioè non basato su inadempimento; inoltre, la soglia del 20% pare rilevare solo per l’attribuzione all’agente del potere di reazione, non anche come limite esterno al potere di variazione unilaterale che, in astratto, potrebbe ben essere esercitato -ed in concreto è infatti spesso esercitato- oltre questo limite.

Questo ha indotto a molti a ritenere che la contrattazione collettiva costituisca in favore della mandante un potere svincolato da qualsiasi limite di esercizio e che incontra il suo unico argine nel corrispettivo potere dell’agente rifiutare la modificazione e di provocare il recesso per volontà della mandante.

Ed infatti, la pratica ha visto casi in cui la mandante ha ridotto le provvigioni anche fino all’88%. Abbiamo già esaminato in un altro articolo questi casi di modifiche abnormi, che sono state definite abusive.

In questa sede ci limiteremo ad acquisire i risultati maturati in seno alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui: “il contratto di agenzia dà luogo ad un contratto di durata e che le parti possono prevedere la possibilità di modificare le clausole contrattuali allo scopo di meglio adeguare il rapporto in relazione alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il decorso del tempo”riconoscendo però come sia: “necessario tuttavia che il potere unilaterale di modifica così concesso abbia dei limiti in modo da non escludere la forza vincolante del contratto nei confronti di una delle parti contraenti; ed è anche necessario che il potere così delimitato sia esercitato dal titolare con l’osservanza dei principi di correttezza e buona fede” CC 2000-5467.

Il dato interessante è che in più occasioni la Corte di Cassazione, chiamata a giudicare di modifiche abnormi per entità, ha espressamente riconosciuto legittima la condotta dell’agente che non si era limitato ad esercitare l’ordinario potere di rifiuto, ma aveva invece reagito alla modifica della provvigione con un recesso immediato per giusta causa. Corollario di tale accertamento è che la modifica abusiva o abnorme costituisce condotta inadempiente della mandante. Condotta che si colloca cioè fuori dalla cornice dei poteri contrattuali ad essa riconosciuti, tanto da giustificare il recesso per giusta causa dell’agente.

Da questa breve disamina si può quindi osservare che la modifica unilaterale fatta dalla mandante può essere sia legittimo esercizio di un potere contrattuale, come pure costituire inadempimento, tanto grave da facoltizzare l’agente addirittura a recedere per giusta causa.

Si pone dunque il problema fondamentale di distinguere i due casi.

Certamente non può soccorrere il dato quantitativo.  Non sempre ci si troverà infatti di fronte ad una riduzione provvigionale dell’88%, come nel caso deciso da CC 2015-13580. Infatti, come si dovrebbe considerare una variazione del 60%, o del 40% o del 30% o anche solo del 10%? Come si vede, non essendo possibile tracciare una soglia -che sarebbe sempre e comunque arbitraria- il dato quantitativo deve essere rifiutato in favore di un criterio qualitativo. Un criterio cioè che possa effettivamente catturare e valorizzare gli interessi coinvolti, alla luce del principio di correttezza e buona fede.

Per iniziare a ricercare questo criterio si potrà fare utile riferimento ai dati acquisiti in materia, cercando di espanderne la logica interna.

Per quanto riguarda la giurisprudenza di Cassazione, abbiamo già ricordato l’arresto di CC 2000-5467 che ha valorizzato il rapporto di durata che scaturisce dal contratto di agenzia stabilendo che il potere di modifica unilaterale trova fondamento nello “scopo di meglio adeguare il rapporto in relazione alle esigenze delle parti, così come si sono modificate durante il decorso del tempo”.

Questo punto è di importanza centrale perché, pur nella sua sinteticità, riesce ad illuminare l’intero problema.

Vanno infatti richiamate qui due caratteristiche particolari del contratto di agenzia: primo, l’essere un contratto di durata; secondo, l’essere un contratto di collaborazione distributiva.

Partiamo dal primo punto. Il contratto di agenzia dà naturalmente origine ad un rapporto di durata. Ciò significa, anche in ragione della natura commerciale del contratto, che la situazione di fatto assunta dalle parti all’inizio del rapporto passa normalmente attraverso notevoli e, per la gran parte, imprevedibili modificazioni mano a mano che la relazione tra agente e preponente prosegue. Si pensi ad esempio al mutamento delle condizioni di mercato, all’introduzione, ovvero all’obsolescenza di prodotti, all’ingresso sul mercato di concorrenti, all’avvento di nuove tecnologie produttive, commerciali o distributive. Gli esempi sono tali e tanti da rendere superfluo l’ulteriore indugio sul punto.

Si può dunque, in adesione alla decisione della Corte di Cassazione sopra richiamata, individuare in questa legittima esigenza di adattare il contenuto del contratto al mutamento del mercato il fondamento del potere contrattuale di variazione unilaterale. E per questa via possiamo ricavare un primo limite all’esercizio del potere contrattuale di variazione unilaterale come segue: tale potere si potrà esercitare solo se sussista la situazione di base che lo giustifica, vale a dire qualora risulti modificata in qualche rilevante dimensione la situazione di mercato su cui insiste il contratto di agenzia.

Ma questo criterio è ancora troppo vago e richiede una ulteriore specificazione che può essere tratta prendendo in considerazione la seconda caratteristica del contratto di agenzia, quella di essere un contratto di collaborazione distributiva.

Agente e preponente, infatti, operano ad un diverso livello di mercato, secondo quella che è stata definita una relazione verticale. Il preponente produce i beni e l’agente si occupa della loro collocazione sul mercato, oppure il preponente importa i beni e l’agente si occupa di venderli sul mercato, oppure ancora il preponente acquista i beni all’ingrosso e l’agente ne promuove la vendita ai dettaglianti o altri grossisti minori.

In questo senso, pur essendo pacificamente l’agenzia un contratto commutativo, esso riveste l’ulteriore peculiare caratteristica di disegnare un interesse comune tra agente e preponente, nel senso che -per entrambi- il momento acquisitivo della loro attività professionale si verifica con la vendita realizzata al terzo. Quell’evento, infatti, è al contempo il ricavo del preponente ed il presupposto della provvigione dell’agente.

Fino a quando la vendita non si sia conclusa, né agente né preponente traggono alcuna utilità dalla propria attività, il cui costo, per quanto di rispettiva ragione, è da ciascuno di essi integralmente sopportato. E’ dunque questo interesse comune il punto cui occorra rifarsi per giudicare se il preponente abbia bene o male esercitato il potere di modifica unilaterale.

Esso solo, infatti, costituisce una base comune da cui si possa osservare la relazione tra il contenuto del contratto e la situazione concreta su cui esso incide, per giudicare se effettivamente sia necessario o meno adattare il primo alla seconda.

Per questo, a mio avviso, il dato fondamentale consiste nel valorizzare l’interesse comune preponente-agente, operazione da compiersi sulla base del noto modello dell’interesse collettivo (1), inteso come l’interesse di una pluralità di persone a un bene idoneo a soddisfare un bisogno comune (2). Operazione questa che è facilitata dal fatto che gli interessi preponente-agente convergono sull’elemento comune della vendita al terzo.

Occorre qui invero fare una precisa distinzione tra gli interessi personali dell’agente e del preponente, entro il contratto di scambio che è l’agenzia commerciale, e l’interesse della comunità agente-preponente nei confronti dei terzi operanti sul mercato, siano essi concorrenti del preponente, clienti o concorrenti dell’agente.

Infatti, entro il perimetro del contratto di agenzia, gli interessi delle parti sono evidentemente in conflitto, come per ogni contratto commutativo, laddove l’interesse di ciascuna parte al bene regolato per mezzo del contratto è diametralmente opposto a quello dell’altro.

Nel nostro caso, semplificando per amor di chiarezza, il preponente ha interesse a che l’attività dell’agente sia svolta al costo più basso possibile, laddove l’agente ha l’interesse contrario, cioè a vedere il proprio lavoro remunerato il meglio possibile.

Ed è proprio su questo conflitto di interesse che incide il regolamento contrattuale ed è proprio rispetto a questa regolamentazione del conflitto che il contratto, con il principio di vincolatività, deve essere salvaguardato da indebite modificazioni che possano alterarne l’equilibrio.

Ma oltre all’ordinario conflitto di interesse nei loro rapporti reciproci, nei rapporti con il mercato, agente e preponente hanno un interesse comune, quello di realizzare la miglior vendita possibile al terzo. Invero, e questo fatto non può essere evidenziato abbastanza, la vendita al terzo, costituendo identico presupposto per la remunerazione delle rispettive attività imprenditoriali, rappresenta quel bene per il cui mezzo si soddisfa il loro comune interesse.

Ma questo bene, la miglior vendita al terzo, è per propria natura un bene dinamico, che può essere ottenuto solamente per mezzo del continuo e cooperativo adattamento alle condizioni di mercato. Da parte del preponente, ad esempio, conservando competitività tramite investimenti produttivi o innovazione di prodotto, e da parte dell’agente, sempre esemplificando, tramite sviluppo di nuovi clienti ovvero coltivando assiduamente la relazione commerciale con i clienti già in portafogli.

Nella relazione con il mercato, quindi, agente e preponente costituiscono una parte complessa e, come tale, portatrice di un interesse autonomo che può essere agevolmente separato da quelli individuali di ciascuna delle due parti. Ed è solo in relazione a questo interesse comune che può quindi ipotizzarsi ed ammettersi un potere unilaterale di modificazione del contenuto del contratto di agenzia, dell’assetto cioè degli interessi individuali delle parti, che -in ipotesi- potrebbe essere non più rispondente alla realizzazione dell’interesse comune.

Una volta individuata dell’interesse comune la base per l’attribuzione al preponente del potere di modificazione unilaterale, è facile distinguere le ipotesi legittime da quelle illegittime.

Qualche esempio tratto dalla pratica aiuterà a capire.

L’ingresso sul mercato di un nuovo concorrente aggressivo riduce i margini di profitto sulla vendita dei prodotti. Per conservare quote di mercato è necessario abbassare i prezzi alla clientela. In questo caso, ridurre la provvigione può essere legittimo laddove la modificazione soddisfa l’interesse comune della coppia agente-preponente.

L’attività dell’agente sviluppa sensibilmente gli affari sulla zona affidata. La casa preponente, al fine di trasferire marginalità dall’attività dell’agente alla propria, riduce la provvigione all’agente. In questo caso, la riduzione della provvigione si deve sempre e comunque qualificare come illegittima, perché soddisfa l’interesse egoistico del solo preponente, sacrificando l’interesse dell’agente.

Sarà quindi legittima la variazione unilaterale disposta dal preponente, quando risultino soddisfatti i seguenti requisiti: (a) si sia verificata una variazione delle condizioni di mercato, requisito questo da doversi intendere, similmente alle ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano i poteri del datore di lavoro, nel senso della sua obiettiva sussistenza e della sua relazione causale con la posizione contrattuale dell’agente; (b) la disposta modificazione risulti obiettivamente strumentale al soddisfacimento dell’interesse comune alle parti del contratto di agenzia alla realizzazione dello scopo comune, vale a dire la miglior vendita al terzo.

 

Va fatto in conclusione un avvertimento: il principio proposto, seppure passibile di ulteriore sviluppi, soprattutto in ordine alla chiarificazione del concetto di “circostanze attribuibili al preponente” di cui al secondo comma dell’art. 1751 c.c. anche oltre e fuori della fattispecie tipica del recesso per giusta causa, deve ancora passare per il vaglio della giurisprudenza e, pertanto, ai fini operativi, va maneggiato con cura.

 

1. L’interesse collettivo è l’interesse di una pluralità di persone a un bene idoneo a soddisfare un bisogno comune. Esso non è la somma di interessi individuali, ma la loro combinazione. SANTORO-PASSARELLI, Nozioni di Diritto del Lavoro, Napoli, 1995, pag. 29. (torna su)

2. Interesse è appunto un rapporto tra un bisogno dell’uomo e un quid atto a soddisfarlo, una situazione favorevole al soddisfacimento di un bisogno, il cui mezzo per la soddisfazione è costituito dai beni. Uomo e beni vengono pertanto a costituire i due rami del rapporto che noi chiamiamo interesse. Vi sono interessi individuale ed interessi collettivi. La differenza è dovuta a ciò che la situazione favorevole al soddisfacimento di certi bisogni può determinarsi anche rispetto ad un solo individuo; invece la situazione favorevole al soddisfacimento di certi altri può determinarsi solo rispetto a più, a molti, a tutti gli individui. Si parlerà dunque di interessi collettivi quando la situazione favorevole per il soddisfacimento di un bisogno non può determinarsi se non rispetto a più individui insieme. Francesco CARNELUTTI, Lezioni di Diritto Processuale Civile, I, Padova, 1926, P. 6. (torna su)

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