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11-04-2023

abuso di dipendenza economica nel contratto di agenzia, ancora sulla riduzione delle provvigioni

Il tema delle modifiche al contratto di agenzia è di grande importanza pratica, soprattutto per l’agente di commercio che si trova spesso “costretto” a sottoscrivere patti di riduzione di zona, prodotti o addirittura della percentuale delle provvigioni.

Ci siamo già occupati delle modifiche unilaterali disposte dal preponente, sia in forza di una specifica clausola individuale attributiva del relativo potere, sia in applicazione del meccanismo previsto dagli AEC di categoria.

In questo articolo ci occuperemo dei patti bilaterali, quindi degli accordi di modifica del contratto di agenzia che siano stati espressamente accettati dall’agente, per verificare se vi siano margini di manovra per impugnare questi “patti” che sono spesso sottoscritti dietro richiesta espressa del preponente.

Innanzitutto occorre precisare che questi patti modificativi, risultando liberamente voluti dalle parti, sono assistiti dalla regola generale di efficacia di cui all’art. 1372 cod. civ. per cui “hanno forza di legge tra le parti”. Da ciò deriva la necessità di individuare uno schema legale, diverso dai generali vizi del consenso, in forza del quale predicare la possibile invalidità di un contratto -il patto modificativo del contratto di agenzia, appunto- che per forma e sostanza rispetta tutti i requisiti di efficacia richiesti dalla legge.

Uno di questi parametri alternativi di giudizio è l’art. 9 legge 192 del 1998, c.d. legge sulla subfornitura. La norma, più volte modificata nel corso degli anni, prevede infatti espressamente: “il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo”. E definisce la dipendenza economica come segue: “si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi.  La   dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”.

Sull’art. 9 legge subf. si è accumulata una letteratura specialistica notevole, sebbene la fattispecie non abbia incontrato il favore della giurisprudenza che ha faticato ad integrarla nei propri schemi tradizionali. Solo recentemente la Corte di Cassazione, peraltro contro una parte notevole degli interpreti, ha chiarito quale debba essere la nozione di “dipendenza economica” da accogliere nel nostro ordinamento, rifacendosi sostanzialmente allo schema dell’abuso del diritto, a sua volta ricondotto alla necessità del rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede.

Nel nostro specifico campo di indagine, occorre da subito ricordare l’art. 3, comma 4, D.lgs 81/2017 che dispone espressamente: “ai rapporti contrattuali di cui al presente capo si applica, in quanto compatibile, l’art. 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192, in materia di abuso di dipendenza economica”.  A sua volta, l’art. 1. D.lgs. 81/2017 così ne disciplina il campo di applicazione: “le disposizioni del presente capo si applicano ai rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile, ivi inclusi i rapporti di lavoro autonomo che hanno una disciplina particolare ai sensi dell’art. 2222 cod. civ.”. Pertanto i rapporti di agenzia, anche se giuridicamente qualificati come rapporti di lavoro autonomo, e non già rapporti tra imprese, sono comunque ricompresi nell’ambito di applicazione di cui all’art. 9 l. subf.

ertanto, tutte le considerazioni che si svolgeranno nel prosieguo sono riferibili a qualsiasi agente di commercio, sia esso lavoratore autonomo, imprenditore individuale ovvero costituito in forma si società, tanto di persone che di capitali.

Superando le notevoli divisioni, tanto della dottrina che della giurisprudenza di merito, la Corte di Cassazione, con la sentenza 1184/2020 ha reso un intervento chiarificatore in merito a come debba essere considerata l’abuso di dipendenza economica nel nostro ordinamento. La sentenza è tanto più interessante in quanto, per la soluzione del caso concreto, l’approfondito esame dell’istituto non era affatto necessario, sicché appare ancora più evidente l’intento nomofilattico perseguito dalla Cassazione.

Si riporterà di seguito parte della motivazione della sentenza e si svolgeranno poi alcune brevi considerazioni sull’utilizzabilità delle conclusioni raggiunte dalla Cassazione nell’ambito del contratto di agenzia, con particolare riguardo ai patti modificativi del contratto di agenzia, per la riduzione della zona, dei prodotti ovvero della percentuale provvigionale.

Cassazione Civile, sez. I, n. 1184 del 21 gennaio 2020

§ 3.2. La l. n. 192 del 1998, art. 9 vieta l’abuso di dipendenza economica instaurata tra una ed altra impresa, tra le quali intercorre un rapporto contrattuale.

La norma ha cura di fornire una definizione (seppur contenente elementi indeterminati) di “dipendenza economica”: la “situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”.

Quanto all’ “abuso”, la norma afferma che esso può consistere: “nel rifiuto di vendere o comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”.

Si tratta di nozioni indeterminate, che spetta all’interprete riempire di significato, in coerenza con la ratio normativa ed i principi dell’ordinamento.

Al comma 3, quindi, è sancita la nullità di ogni patto, attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica; ne segue, altresì, il risarcimento del danno (di natura contrattuale: Cass. S.U. 25 novembre 2011, n. 24906).

§ 3.3. L’art. 41 Cost. è la norma di riferimento, quando si incida su pattuizioni contrattuali che si esplicano sul mercato.

La materia attiene all’ordine pubblico, inteso quale complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi primari su cui si regge la civile convivenza nella comunità nazionale, in un certo momento storico e, in particolare, nei suoi aspetti economici, sulla base di quanto si trae dalla Costituzione, dai patti e dalle dichiarazioni internazionali, e dalla legge.

Viene così accolta la nozione di ordine pubblico economico, inteso come ordine pubblico dei rapporti tra privati in materia economica, per il quale sussiste detto interesse all’esercizio corretto e ragionevole dell’autonomia privata.

Il principio è quello di libertà di iniziativa economica, riflesso anche nelle regole dell’autonomia privata (art. 1322 cod. civ., comma 1) e dell’efficacia vincolante del contratto tra le parti (art. 1372 cod. civ., comma 1), cui limiti possono essere posti in virtù di specifiche esigenze di tutela positivamente normate, alla stregua dell’art. 41 Cost.

A questa categoria di principi va ricondotta anche la disciplina dettata dall’art. 9 legge ordinaria sulla subfornitura, che attiene più generalmente, come ormai si concorda dagli interpreti, all’ordine pubblico di mercato.

§ 3.4. La l. n. 192 del 1998, art. 9, costituisce fattispecie riconducibile al più vasto tema dell’abuso del diritto, quale applicazione delle clausole generali di buona fede e correttezza: si tratti di canoni, alla cui stregua valutare la condotta idonea a ripercuotersi nella sfera giuridica di altro soggetto.

I ricordati concetti sono evocati nel menzionato art. 9. comma 2: laddove richiama, in modo non tassativo, l’imposizione di condizioni contrattuali “ingiustificatamente” gravose e l’interruzione “arbitraria” delle relazioni commerciali in atto.

La nozione di abuso del diritto che si fonda sulle predette clausole generali si collega al concetto, proprio della nostra tradizione costituzionale, della utilità sociale (cfr. art. 41 Cost; v. pure la funzione sociale ex art. 42 Cost.), nell’ambito del pieno riconoscimento della libertà d’impresa, dato che l’iniziativa economica privata è libera (art. 41 Cost., comma 1) e deve rispettare le libertà altrui (art. 41 Cost. comma 2), dunque con duplice richiamo al concetto.

In tal modo, la l. n. 192 del 1998, art. 9. provvede a circoscrivere le condotte abusive, pur in presenza di dei concetti indeterminati che compongono la fattispecie, ma che, appunto, devono essere interpretate e rese concrete dagli interpreti nell’individuazione delle condotte fattuali che integrano violazione del divieto, e non, invece, il legittimo esercizio del diritto d’intrapresa economica. L’ordinamento, invero, tutela la libertà d’impresa, anche di quella dominante: ma ciò, sino al punto in cui essa non usurpi il profitto che, secondo l’iniziale regolamento negoziale, avrebbe dovuto competere alla controparte imprenditoriale, in quanto il comportamento tenuto dalla dall’impresa dominante sia privo di senso oggettivo e non si possa giustificare sulla base delle necessità dell’impresa, vuoi di tipo economico, vuoi di tipo industriale o tecnico, nell’ambito dei processi produttivi o distributivi, al contrario mirando ad “appropriarsi” del legittimo margine di profitto altrui.

Prima di tale momento, le conseguenze sanzionatorie, incisive per la libertà negoziale, previste dalla legge non possono operare; pena il rischio di soluzioni, in definitiva, disfunzionali per il sistema, che finirebbe anzi per contrastare gli obiettivi voluti, al di là della singola vicenda concreta, costituendo, piuttosto, ostacoli allo stesso sviluppo dell’impresa c.d. dipendente.

Nell’interpretazione ed applicazione dell’art. 9. l. 192 del 1998 è, pertanto, essenziale l’enucleazione della causa del contratto, nozione sorta per l’esigenza della cosiddetta “razionalità mercantile” delle convenzioni tra i privati, ed ora intesa unanimemente quale causa concreta della singola operazione che il complesso regolamento negoziale realizza. Occorre l’individuazione di una condotta contraria a buona fede, in cui il potere di dettare le condizioni contrattuali trasli nell’illecita imposizione di clausole o di patti contrari alla c.d. razionalità del mercato.

L’impostazione seguita assume un criterio teleologico di valutazione, in cui l’abuso viene decritto come uno sviamento del diritto rispetto alla sua funzione tipica, le facoltà ed i poteri inerenti ad un diritto soggettivo venendo utilizzati dal titolare per perseguire un interesse diverso da quello per il quale gli sono attribuiti.

Il confine tra il comportamento lecito, anche se gravoso per la controparte, e comportamento vietato passa dunque per l’accertamento, in via di fatto, della liceità dell’interesse in vista del quale il comportamento è stato tenuto. Per questa via, l’atto abusivo può essere privato della sua efficacia o comportare reazioni risarcitorie; e, tuttavia, ciò non è dato allorché, pur avendo in una relazione contrattuale una parte tenuto condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, “tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi”.

Proprio in quanto si superi il principio della c.d. autoresponsabilità imprenditoriale, mettendo fuori gioco l’autonomia contrattuale ed il vincolo negoziale raggiunto dalle parti – senza che ricorrano i presupposti della rescissione o dei vizi del consenso ex art. 1425 cod. civ. – la valutazione delle condotte deve essere svolta secondo criteri approfonditi, completi e coerenti.

Atteso il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica, e data la liceità e la normalità, di per sé, di una diversa forza negoziale delle parti, si richiede, da parte del giudicante, una adeguata ponderazione di tutti gli elementi di fatto e di diritto, al fine della puntuale ricostruzione della causa concreta degli accordi e prima di giungere alla vanificazione di un regolamento negoziale fonte di posizioni giuridiche soggettive ed alla rivisitazione ex post delle opzioni contrattuali in funzione di apprezzamenti esterni: non avendo l’arbitro, così come il giudice, il potere di sovrapporre la propria soggettiva valutazione al regolamento posto in essere dalla parti. Onde l’esigenza di accertare, in concreto, l’esistenza di una condotta arbitraria ingiustificata.

In definitiva, per l’applicazione della norma, è necessario:

1) in primo luogo, con riguardo alla sussistenza della situazione di dipendenza economica, indagare non se non sussista una situazione di mero squilibrio o asimmetria di diritti e di obblighi, ma se lo squilibrio sia eccessivo e se l’altro contraente fosse realmente privo di alternative economiche sul mercato (rilevando, ad esempio, la dimensione della società dipendente, che non permetta agevolmente di differenziare la propria attività, o l’avere adeguato l’organizzazione o gli investimenti in vista di quel rapporto);

2) in secondo luogo, indagare la condotta arbitraria e contraria a buona fede, ovvero l'intenzionalità di una vessazione perpetrata sull'altra impresa, in vista del perseguimento di fini esulanti dalla lecita iniziativa commerciale retta da un apprezzabile interesse economico dell'impresa dominante (quale potrebbe essere, ad esempio, la legittima esigenza di modificare le proprie strategie di espansione, di adattare il tipo o la quantità del prodotto, ma anche di spuntare legittimamente le migliori condizioni), in quanto volta, al contrario, essenzialmente a cagionare il pregiudizio altrui. Come sopra rilevato, invero, che non ogni situazione di dipendenza economica può dirsi vietata, ma unicamente quella che sia abusivamente sfruttata dalla parte dominante, al fine di trarne vantaggi ulteriori rispetto a quelli derivanti dal legittimo esercizio della propria autonomia negoziale. 

L’onere della prova di tali presupposti resta a carico dell’attore che invochi le tutele di cui all’art. 9, l. 192 del 1998.

L’arresto è certamente interessante, anche se, altrettanto certamente, non può dirsi definitivo. Nonostante infatti il tentativo di fare il punto della situazione in tema di abuso di dipendenza economica, la sentenza sopra riportata riesce, al tempo stesso, ad essere tautologica e contraddittoria.

È tautologica nella parte in cui affida il giudizio di legittimità della condotta alla valutazione della legittimità dell’interesse perseguito dall’impresa dominante. Infatti pare difficile negare che l’impresa dominante, ente costituito a fine di lucro, nel cercare di acquisire in tutto o in parte il margine imprenditoriale dell’impresa dipendente, stia perseguendo un interesse giuridicamente protetto. Non è quindi certamente su questo terreno che deve essere discriminata la condotta rilevante. Come vedremo in seguito, molto più promettente appare la valorizzazione dell’elemento causale.

E' poi contraddittoria nella parte in cui, da un lato, dichiara che i poteri di autonomia negoziale sono attribuiti per la realizzazione dell’“ordine pubblico economico” e, dall’altro, che il giudice non ha il potere di sovrapporre la propria valutazione a quella delle parti private. Invero, se i poteri di autonomia privata fossero attribuiti per realizzare l’ordine pubblico economico non sarebbero le valutazioni del giudice a sostituirsi a quelle delle parti, ma bensì quelle dell’ordinamento, per come determinate da giudice.

La sentenza in commento è d’altra parte esempio del travaglio culturale in cui si trova la nostra giurisprudenza, tesa tra i due poli dell’ordoliberismo di matrice comunitaria e la tradizione domestica. I primo di questi elementi si vede chiaramente nei § 3.2. e 3.3. in cui si recepisce il concetto di ordine pubblico economico ovvero di ordine pubblico del mercato. Il secondo, invece, nel § 3.4., dove si tenta, con poco successo, di innestare queste nozioni nell’ambito della tradizione domestica dell’abuso del diritto e delle clausole di buona fede e correttezza cui accede, sulla scorta di una determinata visione dell’autonomia privata, l’idea che il giudice non possa sostituire le proprie valutazioni a quelle delle parti.

Si tratta quindi ancora di una sentenza culturalmente ibrida, da cui comunque si possono comunque trarre interessanti elementi.

Il principale dei quali è la valorizzazione dell’elemento causale, inteso come causa concreta del negozio effettivamente posto in essere tra le parti.

Al riguardo, le più interessanti valutazioni che si trovano nella sentenza sono le seguenti:

L’ordinamento, invero, tutela la libertà d’impresa, anche di quella dominante: ma ciò, sino al punto in cui essa non usurpi il profitto che, secondo l’iniziale regolamento negoziale, avrebbe dovuto competere alla controparte imprenditoriale, in quanto il comportamento tenuto dall’impresa dominante sia privo di senso oggettivo e non si possa giustificare sulla base delle necessità dell’impresa, vuoi di tipo economico, vuoi di tipo industriale o tecnico, nell’ambito dei processi produttivi o distributivi, al contrario mirando ad “appropriarsi” del legittimo margine di profitto altrui.

Questo passaggio è particolarmente significativo in relazione alle modifiche al contratto di agenzia.

E' chiaro infatti come, in termini di rapporto di agenzia, i superiori rilievi si possano valorizzare. L’iniziale regolamento negoziale è infatti il contratto di agenzia, in cui sono pattuiti tutti gli elementi essenziali del rapporto, quali i prodotti, la zona e la misura delle provvigioni. Come chiaro, il contratto di agenzia presenta una particolare affidabilità ai fini della legittimità negoziale del regolamento pattuito. Infatti, se è vero che anche in fase di prima stipula sussiste uno squilibrio di potere contrattuale tra il preponente e l’agente, è altrettanto vero che quest’ultimo si trovi, almeno potenzialmente, libero di trattare con tutti gli operatori del mercato e, pertanto, se non in posizione di parità, quantomeno in una posizione tale da non meritare una tutela ulteriore rispetto a quella già approntata dalla disciplina inderogabile del tipo legale. Pertanto, nei limiti delle norme imperative, il regolamento iniziale del rapporto per come desumibile dal contratto di agenzia si deve ritenere sempre valido ed efficace.

La stessa cosa non si può invece dire per le modifiche successive al regolamento contrattuale che siano intervenute nel corso del rapporto di agenzia.

Al riguardo, non è difficile riscontrare nella prassi una autentica situazione di dipendenza economica dell’agente nei confronti del preponente. Infatti, come è noto, è proprio sul terreno dei rapporti verticali che la dottrina ha individuato la fattispecie di dipendenza economica, per come desunta dall’analisi economica. Sebbene la sentenza n. 1184/2020 non abbia accolto questa impostazione, riconducendo l’istituto alla generica figura dell’abuso del diritto, non ha certamente ignorato i risultati raggiunti in questo campo, ma li ha semplicemente derubricati da elementi di fattispecie ad elementi di valutazione della clausola generale. Pertanto, sarà certamente possibile affermare che l’agente si trovi in una situazione di “dipendenza economica” dal preponente quanto: 1) la totalità o la gran parte dei compensi dell’agente derivino dal contratto di agenzia con un determinato preponente; 2) sia riscontrabile, in concreto, il c.d. effetto di lock-in dell’agente nel rapporto. Quest’ultimo punto è particolarmente importante e ricorre, strutturalmente, quasi sempre in rapporti che si siano consolidati per un lungo periodo. Infatti in questo caso, sarà in concreto quasi sempre impossibile per l’agente passare da un preponente all’altro senza perdere gran parte del proprio fatturato, ciò in quanto l’avviamento commerciale dell’agente è indissolubilmente legato alla sfera organizzativa del preponente. Ed è infatti proprio su questo terreno che si riscontrano le condotte opportunistiche dei preponenti che impongono modifiche contrattuali agli agenti, soprattutto in relazione alla misura della provvigione. In particolare, l’agente, posto di fronte all’alternativa tra l’accettare una riduzione della provvigione e la perdita della relazione contrattuale, che genererebbe una perdita economica ancora maggiore, è spesso indotto ad accettare la modifica contrattuale. È questa una condotta tutt’altro che infrequente del preponente che tende ad appropriarsi del sovra-margine di profitto dell’agente che eccede la remunerazione degli investimenti sommata a un determinato livello di utile. Cosicché, mano a mano che dallo sviluppo della zona consegue un aumento dei ricavi, mediante progressive riduzioni provvigionali, l’attività dell’agente di commercio viene remunerata ad un livello costante mentre l’extra-profitto generato dalla zona viene incamerato dal preponente.

È proprio in relazione a queste ipotesi che può essere utile lo strumento dell’abuso di dipendenza economica. Infatti, questi patti modificativi possono essere impugnati e, in caso di riscontrata loro invalidità, può essere richiesto il relativo risarcimento del danno.

È però sotto questo specifico profilo che la sentenza in esame richiede di essere meglio analizzata. Infatti, lo stralcio della motivazione si chiude con l’affermazione, piuttosto perentoria, che l’onere di provare tutti i presupposti per l’applicazione dell’istituto dell’abuso di dipendenza economica sono a carico dell’attore e, quindi, nel nostro caso, dell’agente di commercio che intendesse citare in giudizio il preponente per invocare le differenze provvigionali maturate in forza di un patto di riduzione della provvigione che deduca sia stato stipulato abusando della dipendenza economica.

Tali presupposti sono così sintetizzati nella sentenza:

1) l’effettiva sussistenza della dipendenza economica;

2) “la condotta arbitraria e contraria a buona fede, ovvero l’intenzionalità di una vessazione perpetrata sull’altra impresa, in vista del perseguimento di fini esulanti dalla lecita iniziativa commerciale retta da un apprezzabile interesse economico dell’impresa dominante”.

Sul primo elemento non vi è dubbio alcuno che spetti a all’agente di commercio il relativo onere della prova. Sembra però che la sentenza n. 1184/2020 non si accontenti del fatto che l’agente dimostri di essersi effettivamente trovato in una condizione di dipendenza economica, ma sembra pretendere che questi si accolli anche la dimostrazione, in positivo, della condotta abusiva del preponente che si dovrebbe discostare dal perseguire “un apprezzabile interesse economico dell’impresa dominante”.

Sotto questo profilo, le conclusioni della sentenza non paiono condivisibili fino in fondo. Infatti, come visto, la Cassazione, per giudicare della liceità o meno della condotta dell’impresa dominante, richiama il concetto di causa concreta del negozio. Valorizza cioè l’effettiva funzione che il contratto dovrebbe assolvere, per valutare che esso sia stato posto in essere, secondo lo schema generale, per realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 cod. civ.).

Al riguardo, occorre notare che il nostro ordinamento civile è un ordinamento c.d. causale, che pretende cioè che ogni attribuzione patrimoniale sia fatta sulla base di una causa giudicata meritevole dall’ordinamento. In questo senso, quindi, sembra molto più coerente con il sistema una ripartizione dell’onere della prova diversa da quella prospettata dalla sentenza in commento.

In particolare, una volta che sia stata dimostrata ad opera dell’impresa dipendente o dell’agente di commercio la effettiva sussistenza dello stato di dipendenza economica, dovrebbe competere all’impresa dominante, che pretenda di conservare l’efficacia dell’atto impugnato, dimostrare quale sia effettivamente la causa concreta del negozio, quale fosse cioè la ragione economica, tecnica od organizzativa che stava alla base del patto. Ciò risulterebbe anche decisamente più coerente con il principio della vicinanza alla prova, per come interpretato dalla stessa Corte di Cassazione (Ordinanza n. 12910 del 22/04/2022).

Non pare infatti desumibile univocamente dall’art. 9, l. subf. che fatto costitutivo della domanda di nullità dell’attore sia, oltre alla dipendenza economica, anche la condotta abusiva da parte dell’impresa dominante. Anzi, a seguito delle modifiche introdotte all’art. 9 l. subf. dalla legge 118/2022 che ha introdotto le specifiche ipotesi di abuso di dipendenza economica da parte delle piattaforme digitali, è possibile dedurre elementi testuali in senso contrario.

Su questi presupposti, quindi, in astratto risulta impugnabile il patto sottoscritto dall’agente per la riduzione delle provvigioni, con la conseguenza di potere richiedere il risarcimento del danno pari alle provvigioni perse. Affinché la domanda possa trovare accoglimento, si dovranno provare i seguenti elementi: (a) lo stato di dipendenza economica e; (prudenzialmente) (b) la condotta abusiva del preponente. Questo ultimo punto, in concreto, si potrà dimostrare certamente nel caso di patto di riduzione della provvigione intervenuto in una fase di crescita del fatturato della zona contrattuale. In questo caso, infatti, una volta dimostrata la dipendenza economica, la condotta del preponente tendente ad appropriarsi dell’extra-profitto di competenza dell’agente difficilmente potrebbe giudicarsi lecita. In ogni caso, una volta fornita da parte dell’agente la relativa prova, competerebbe poi al preponente dimostrare quali fossero le effettive ragioni alla base del patto di riduzione delle provvigioni che, come si ricorderà, non può mai comunque essere volto “ad “appropriarsi” del legittimo margine di profitto altrui”.

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